Un tuffo nel passato: distopie giapponesi fra gli anni Settanta e Novanta
Chiunque sia appassionato di narrativa giapponese contemporanea sa quale grande fortuna abbia avuto al suo interno la science fiction di genere distopico, con il suo sperimentalismo e la sua estetica rivoluzionaria. È però negli ultimi tre decenni del secolo scorso che si concentra la produzione più numerosa e variegata di opere appartenenti a questo genere, la quale ha reso la narrativa nipponica e l’ambientazione distopica un binomio popolare in tutto il mondo.
Nel periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale vediamo già, in Giappone, diversi scrittori dedicarsi alla narrativa fantascientifica, spesso con elementi di critica e analisi sociopolitiche: Shunro Oshikawa, Kyusaku Yumeno e Juza Unno sono alcuni esempi. Tuttavia, le origini della science fiction giapponese come genere unificato si possono fissare in corrispondenza della pubblicazione di riviste come Uchujin (1957- ) e Hayakawa’s SF Magazine (1959- ), interamente dedicate a questo filone artistico.
Dagli anni Sessanta in avanti l’arcipelago vede poi una crescita esponenziale di eventi e festival a tema fantascientifico (come il Meg-Con, tenutosi per la prima volta nel 1962 a Tokyo), e per l’Expo ‘70 l’interesse pubblico per il genere aveva raggiunto un picco che avrebbe mantenuto da allora in avanti. Sono gli anni in cui Nihon Chinbotsu (1973), romanzo distopico apocalittico di Komatsu Sakyō, è in cima alle classifiche di vendita, e l’anime Uchū Senkan Yamato (1973), ambientato in seguito a un disastro nucleare che coinvolge tutto il pianeta, calca gli schermi giapponesi al fianco di Star Wars.
Il ricordo, ancora vivo nella memoria collettiva, della distruzione causata dagli attacchi atomici a Hiroshima e Nagasaki nel 1945 trova terreno fertile in questo genere per raccontare gli orrori della bomba e i suoi effetti a lungo termine.
Se, da un lato, non mancano le opere documentarie che fanno apertamente riferimento all’evento storico (è il caso di Hadashi no Gen di Keiji Nakazawa, 1973), molte di più sono le opere che inseriscono nella loro distopia un’arma immaginaria dall’immenso potere distruttivo, nelle quali è semplice per il lettore scorgere l’ombra dell’atomica: le “Meteor Bombs” in Uchū Senkan Yamato (1973), le “Vegatron Bombs” in UFO Robo Grendizer (1975-76), la “Reaction Weaponry” in Super Dimension Fortress Macross (1982-83), le bombe “N²” in Neon Genesis Evangelion (1995), sono solo alcuni fra gli esempi più famosi.
Un altro elemento che trova un’ampia e variegata espressione in molte opere distopiche degli ultimi trent’anni del ventesimo secolo è la crescente attenzione alle problematiche ambientali: in seguito a una serie di gravi disastri verificatisi in Giappone fra gli anni Cinquanta e Sessanta, il paese adotta una scrupolosa politica ambientale volta alla riduzione delle emissioni inquinanti e alla preservazione naturale. Sulla scia di questa consapevolezza nascono diverse opere ambientate durante o immediatamente dopo un disastro ecologico che ha irrimediabilmente sconvolto la vita sul pianeta.
È il caso di Dominion (1985) di Masamune Shirow, Gunnm (1990) di Kishiro Yukito (in Italia conosciuto come Alita l’angelo della battaglia), Trigun (1995) di Yasuhiro Nightow, fino a La Principessa Mononoke (1997) di Miyazaki Hayao, che usciva nelle sale cinque mesi prima della sottoscrizione del protocollo di Kyoto.
Quando si pensa agli ultimi decenni del Novecento, poi, non si può ignorare il vertiginoso progresso tecnologico che ha rapidamente trasformato il Giappone in una vera e propria avanguardia, e che, con il passare del tempo, si è fatto sempre più presente anche negli aspetti più quotidiani della vita giapponese.
Questo contatto sempre più stretto con forme di tecnologia sempre più avanzate ha col tempo suscitato una grande curiosità nei confronti del binomio uomo-macchina, del suo potenziale e dei suoi limiti, e questa curiosità ha a sua volta trovato terreno fertile nell’immaginazione di scrittori e registi, dando vita ad alcuni dei titoli più celebri di science fiction giapponese.
Gli anni Settanta sono un decennio dominato dai mecha, enormi robot pilotati da esseri umani e spesso impiegati in battaglie spettacolari: Il Grande Mazinga (1974), Jeeg Robot d’Acciaio (1975), UFO Robot Goldrake (1977), tra i titoli più famosi, partoriti dal genio del maestro Gō Nagai.
Col passare del tempo, il focus si sposta su un piano più intimo: la relazione diventa simbiotica, non più soltanto di coesistenza ma di fusione completa. Akira (1988), diretto da Ōtomo Katsuhiro, e Ghost in the Shell (1989-1991), di Masamune Shirow, sono senz’altro due degli esempi più eclatanti.
Se da un lato questa unione fra meccanico e organico sembra capace di ottimizzare il corpo umano fino al suo massimo potenziale, dall’altro è anche in grado di – e spesso finisce per – invaderlo come un parassita, distruggendolo dall’interno. Questa rappresentazione ambivalente, figlia dei sentimenti contrastanti della società giapponese nei confronti dell’inarrestabile rivoluzione tecnologica, genera anche una vasta produzione di opere thriller e body horror di genere fantascientifico: è il caso di film come Tetsuo: the Iron Man (1989) di Tsukamoto Shin’ya e Roujin Z (1991) di Kitakubo Hiroyuki .
La ricchezza e la varietà delle opere nate in questo periodo hanno edificato le fondamenta di un genere divenuto emblematico della narrativa giapponese, e hanno continuato a essere d’ispirazione per le distopie successive fino a oggi: l’anime The Orbital Children (2022), ad esempio, una distopia spaziale diretta e sceneggiata da Iso Mitsuo, ha rapidamente guadagnato una grande popolarità, in tempi in cui non bisogna viaggiare poi tanto con la fantasia per figurarsi una vita sulla Terra diversa da quella a cui siamo abituati.
Con queste premesse, possiamo solo aspettarci che le distopie made in Japan continuino, attraverso un numero crescente di media diversi, ad affascinarci e a farci guardare al futuro con curiosità.