Il labile confine tra distopia e realtà

Il labile confine tra distopia e realtà

La fabbrica di Hiroko Oyamada (2013), pubblicato in Italia
nel 2021 da Neri Pozza nella traduzione di Gianluca Coci, ci porta
all’interno di un mondo simile ma parallelo alla realtà, mostrandoci la
rappresentazione delle nuove distopie contemporanee.

Quest’anno abbiamo avuto già diverse occasioni per parlare de La fabbrica di Hiroko Oyamada, sia all’interno del nostro #NipPopBookclub sia in una delle nostre “Pillole di letteratura giapponese” [https://www.youtube.com/watch?v=iecbs0XYZO4]

Si tratta senz’altro di una delle opere più interessanti degli ultimi anni, scritta da un’autrice che in patria sta guadagnando sempre più successo: dopo l’acclamato Kōjō (titolo originale dell’opera), infatti, Oyamada è stata insignita del premio Akutagawa grazie al suo romanzo Ana (‘La buca’, 2014).

 

 

E che cos’era, in fondo, la fabbrica? Credevo di saperlo, prima di cominciare a lavorare in quell’ufficio, ma evidentemente mi sbagliavo.

La fabbrica di Hiroko Oyamada è molto di più di un semplice luogo di lavoro: il complesso industriale si raffigura come una realtà a sé stante, dominata dalle proprie regole e avulsa dalla realtà.

Sappiamo molto poco della fabbrica; ci è noto solo che si tratta di un posto di lavoro molto ambito che i genitori augurano ai figli di ottenere; non abbiamo però idea della storia di questa fabbrica, né di cosa si occupa o tantomeno che cosa produce. La fabbrica quindi si configura come un’entità preesistente avvolta nel mistero, al quale i dipendenti si dedicano fedelmente: una sorta di divinità da adorare. La fabbrica, con la sua pervasività, ingloba ogni aspetto della vita personale dei suoi
dipendenti e non avviene quasi mai un qualsivoglia contatto col mondo esterno.

Più che in una fabbrica, i lavoratori si trovano immersi in quella che può benissimo essere scambiata per una città a tutti gli effetti, con complessi residenziali, ristoranti, negozi e parchi che si snodano su diversi ettari di terreno. Paradossalmente, si tratta di un luogo chiuso ma allo stesso tempo senza confini.

Nella fabbrica è presente una fauna molto particolare: sin dal primo capitolo, in cui la giovane neolaureata Yoshiko sostiene un colloquio per l’assunzione, è presente quello che viene descritto come “odore di pennuti”, che si scoprirà ben presto corrispondere a particolari cormorani neri presenti solo all’interno dei suoi confini. I cormorani rappresentano una presenza costante e a tratti inquietante, che suggerisce al lettore già dalle prime pagine un’atmosfera di surreale.

Se non fosse per questo particolare, tuttavia, la fabbrica avrebbe la parvenza in tutto e per tutto di un luogo reale, o perlomeno verosimile, come a dimostrarci che la distopia moderna può trovare spazio nella realtà in cui viviamo e in spazi apparentemente ordinari e che il confine fra reale e irreale è molto sottile.

 

Insieme a Yoshiko, anche Yoshio e Ushiyama contribuiscono alla narrazione e alla descrizione del lavoro nella fabbrica e, più in generale, del lavoro in Giappone. E’ evidente l’intento di denuncia e critica della situazione del lavoratore medio nel paese del Sol Levante: il libro appartiene infatti a quella che viene definita dalla critica “letteratura del post-Fukushima” che ha come obiettivo la rappresentazione di scenari di precarietà, sempre più in aumento.

Le mansioni che i protagonisti del romanzo ricoprono sono infatti lavori part-time molto semplici e al di sotto delle loro capacità, spesso senza particolari vantaggi o tutele, e soffrono di una sorta di ripetitività: un chiaro riferimento al fenomeno dell’alienazione che vede il lavoratore come un mero burattino e al dilagare di condizioni lavorative sempre più svantaggiose.

È infatti presente nella fabbrica una gerarchia ben visibile. Nel caso di Yoshio, è ironico il modo in cui viene descritta la propria mansione, che appare sin dall’inizio vaga e indefinita, senza un particolare scopo; ciò porterà il protagonista – come i suoi colleghi – a interrogarsi sul senso del proprio operato in una realtà come quella della fabbrica e, più in generale, del mondo del lavoro.

 

 

L’opera di Oyamada Hiroko offre uno spaccato su diversi scenari del mondo occupazionale in Giappone e sulle condizioni, sulle ansie e sulle paure dei lavoratori, suscitando peraltro diversi interrogativi che toccano temi molto discussi anche in altre opere della letteratura contemporanea giapponese.

Negli ultimi anni, sempre più autori e autrici si sono infatti dedicati a delineare un ritratto del mondo lavorativo giapponese; basti pensare a Tsumura Kikuko con Un lavoro perfetto (2015) e Murata Sayaka con La ragazza del convenience store (2016), per citare alcuni esempi.

Con La fabbrica, quindi, Hiroko Oyamada si inserisce in quello che può essere quasi considerato un nuovo filone narrativo che la letteratura giapponese contemporanea sta esplorando con grande ironia, con un humour che può essere definito quasi kafkiano, e trasmettendo un senso di surrealismo che si esplicita fortemente nel finale dei romanzi, aperto a diverse riflessioni.