Cyberpunk, i sogni e gli incubi degli anni ’80
Il cyberpunk evoca immediatamente l’immagine di lucenti megalopoli afflitte dalle diseguaglianze e schivi eroi (spesso non umani) dall’identità frammentata. In breve, l’immaginario della sci-fi giapponese anni ’80. Ma esplorando il vasto e contraddittorio mondo nato all’ombra di Akira, si scopre che la genealogia del genere è molto più complessa. Seguiteci in questo viaggio attraverso gli anni della “grande bolla” e quanto hanno donato alla cultura pop.
Alle origini di un immaginario
Coniato nel 1980 dallo scrittore Bruce Bethke per il titolo un suo racconto e inizialmente poco utilizzato, il lemma “cyberpunk” ha anche in seguito mantenuto un significato vago. È divenuto, come il noir negli anni ’40, un’etichetta con la quale connotare un vasto mondo di romanzi, film, fumetti e videogiochi, accomunati spesso solo dall’atmosfera cupa e decadente e dal fatto di rappresentare un futuro contraddittorio, che ricorda in maniera sospetta il passato.
Ispirati dalla fantascienza esistenzialista di Philip K. Dick, da quella surreale di William Burroughs e da quella perturbante di James Ballard, moltissimi autori declinano le tensioni di un decennio di apparente prosperità in futuri angoscianti. Fra i precursori di questo filone si può citare un italiano, Stefano Tamburini, col fumetto Ranxerox del 1978, uno dei primi a immaginare una fusione fra uomo e macchina, traumatica all’interno di una realtà apparentemente quotidiana ma di fatto già irriconoscibile.
Dall’età dell’oro al cyberpunk
Pur non contribuendo direttamente allo sviluppo del genere fino agli anni ’80, il Giappone è fondamentale per la nascita di quell’immaginario. Infatti diviene il principale modello dell’ambientazione cyberpunk grazie al suo panorama urbano ricco di luci, schermi e pubblicità, sullo sfondo di grattacieli monumentali. Tōkyō, e in special modo il quartiere di Shibuya, è quindi la matrice di tutte le metropoli del cyberpunk, apparentemente coacervi di ogni possibilità e in realtà luoghi di perdizione e corruzione.
Oltre gli ipertecnologici centri città, spesso vere e proprie fortezze, si trovano i bassifondi governati da insinuanti mafie che ricordano la yakuza, mentre le grandi corporation, modellate sugli zaibatsu, dettano legge nella città. Si pensi alla più iconica delle pellicole della fantascienza anni ’80, Blade Runner. Il film del 1982 diretto da Ridley Scott mette in scena una Los Angeles retrofuturistica ispirata alle megalopoli d’Asia, traboccante di luci che fendono la nebbia e di ogni genere di aggeggio tecnologico, ognuno dei quali pare uscito dal quartiere di Akihabara.
La Golden Age del cyberpunk nipponico: i manga
Nel medesimo anno, Akira di Ōtomo Katsuhiro raffigura lo scetticismo verso il futuro nella suggestiva e citatissima Neo-Tokyo, emblema di una realtà squilibrata e destinata alla perdizione. Durante gli otto anni di pubblicazione del manga, Ōtomo riesce a rielaborare tutte le tematiche principali del cyberpunk, dall’uso della tecnologia come ambiguo mezzo di evoluzione, all’onnipresenza dell’insinuante potere governativo, passando per la fragilità dell’identità e il relativismo morale.
Nel frattempo, esordisce l’altro pilastro del manga e dell’anime cyberpunk degli anni 80, Masamune Shirō. Già pochi mesi dopo l’esordio di Akira, pubblica un dōjinshi, Black Magic, introducendo nel genere protagoniste forti e carismatiche, che anticipano il maggiore Kusanagi Motoko, al centro del suo Ghost in the Shell. Prima del 1989, anno di inizio del suo manga più celebre, Masamune Shirō ha modo di perfezionare la sua interpretazione strettamente sociologica e post-umana del cyberpunk con Appleseed. Questo è ambientato dopo una fantomatica Terza guerra mondiale, in un mondo che ricorda quello del capolavoro di Ōtomo.
La Golden Age del cyberpunk nipponico: gli anime
L’adattamento cinematografico di Akira è probabilmente l’evento più importante per l’affermazione del cyberpunk giapponese. Pur risultando all’epoca in un insuccesso economico per la Toho a causa dei costi esorbitanti, quello di Ōtomo diventa rapidamente un film di culto prima in Giappone e poi all’estero, grazie alla diffusione del VHS, trasformandosi nell’emblema delle potenzialità narrative degli anime. Negli anni successivi anche altri grandi fumetti cyberpunk vengono portati al cinema o sul piccolo schermo tramite serie e OVA, determinando il definitivo successo commerciale e di immaginario del genere.
Ghost in the Shell, diretto nel 1995 da Oshii Mamoru, dà il via a un interessante franchise cinematografico e poi televisivo, diventando un paradigma per buona parte della sci-fi urbana successiva. Alita l’angelo della battaglia di Kishiro Yukito viene invece trasposto in due celebri OVA del 1993, che rappresentano al meglio la sua interpretazione avventurosa del genere. Merita un’ultima citazione Manie-Manie – I racconti del labirinto del 1987, film antologico che riunisce tre pilastri dell’animazione giapponese del calibro di Ōtomo Katsuhiro, Kawajiri Yoshiaki e Rintarō, a mostrare la versatilità dell’immaginario cyberpunk.
La Golden Age del cyberpunk nipponico: i film
Mentre tramite manga e anime il genere conosce il successo, le opere cinematografiche ribadiscono le origini antisociali e rivoluzionarie del cyberpunk, fedeli al lascito di Terayama Shūji. Regista di Sho o suteyo, machi e deyō, Terayama è stato il più noto esponente del cinema sperimentale giapponese degli anni ’60 e ’70, e ha trasposto nelle sue opere lo sgretolamento della socialità tradizionale e le difficoltà delle nuove generazioni in maniera non dissimile da certe opere cyberpunk. Tra queste spiccano i film di Tsukamoto Shinya, enfant prodige che già da adolescente mette in scena mutazioni tecnologiche e ibridazioni fra generi.
Meritano una menzione in particolare il mediometraggio Denchū kozō no bōken e poi nella trilogia di Tetsuo, il cui primo capitolo del 1989 è da considerarsi un’altra pietra miliare del cyberpunk nipponico. Un ancora più autentico spirito punk si può rintracciare in Burst city di Ishii Gakuryū, un violento musical rock ambientato in una Tōkyō distopica, uscito poco prima di Akira. Altro esponente fondamentale del cinema cyberpunk, ancora più disturbante nella messa in scena dell’influenza della tecnologia e della società sui corpi, è Fukui Shōjin. Questi collabora con Tsukamoto e realizza alcuni cortometraggi per poi dirigere nel 1991 il discusso lungometraggio 964 Pinocchio.
La Golden Age del cyberpunk nipponico: musica, letteratura, videogiochi
Pur essendo privo della radicalità del cyberpunk, il visual kei è probabilmente il principale filone di J-Pop a emergere durante gli anni ’80, e a trasportare nel contesto musicale le tematiche della trasformazione identitaria e della decadenza fisica. Queste vengono talvolta declinate in maniera estrema e grottesca, come nel caso della band Cali Gari, sotto l’influenza dell’estetica ero guro. Per quanto concerne la letteratura invece l’influsso del cyberpunk è stato in genere tardo e parziale, pur non mancando nel corso degli anni ’90 esponenti originali e di successo, come Mishima Akira.
Ben più pervasiva è stata l’influenza nel videogioco, medium nel quale all’epoca il Giappone aveva una posizione egemone. Molti capitoli delle saghe più amate e iconiche dell’industria nipponica hanno difatti optato per ambientazioni cyberpunk, adottandone spesso anche alcuni cliché, come nel caso di Shin Megami Tensei, Final Fantasy (si pensi all’amatissimo settimo episodio) e Metal Gear. Dopo averne diretto l’esordio, il game designer Kojima Hideo produce l’avventura grafica Snatcher, anch’essa uscita fra 1988 e 1989. Il videogioco si rifà all’immaginario cyberpunk diffuso da Blade Runner e Akira, trovando nelle complesse tematiche di questi lavori lo strumento per introdurre riflessioni mature in un medium ancora in via di sviluppo.
Nostalgia del futuro
Il cyberpunk giapponese conosce il suo apice alle porte degli anni ’90, quando l’esplosione della bolla finanziaria dimostra le fragilità della quotidianità e la sensatezza dei timori espressi dal genere. Cambia quindi forma e si conforma alle ansie del nuovo decennio, producendo opere come Neon Genesis Evangelion e Serial Experiments Lain. Il riferimento privilegiato, in Giappone come nel resto del mondo, rimane però il cyberpunk degli anni ’80, forse perché le sue componenti retrofuturistiche e malinconiche bene si sccordano con l’immaginario di un’epoca di benessere ormai lontana che quel decennio ha trasmesso di sé.
Basti pensare al recente remake di Alita, dove l’ambientazione solare e il tono fiabesco mostrano quanto differentemente possa essere interpretato ora il genere. Come era già successo dolo due anni prima con il remake di Ghost in the Shell. Mentre si attende l’adattamento hollywoodiano dell’altro pilastro del manga cyberpunk, Akira, non si può che constatare come gli incubi degli anni ’80 vengano spesso trasformati nei sogni malinconici del presente. Come se la nostalgia del passato perduto di quei cupi mondi futuri fosse divenuta la nostalgia del futuro perduto che quell’età dell’oro sognava per sé.