Tokyo Cyberpunk: la trasfigurazione dello spazio urbano attraverso il corpo
di Roberta Cavallo
L’ombra dell’atomica si sente ancora. Il famosissimo lungometraggio Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo, si apre con l’immagine di una Tokyo che distrutta da un’esplosione, una luce accecante che divora la città per intero. Poco dopo ci viene presentata Neo Tokyo, non troppo diversa da come ci immaginiamo il prototipo della città futuristica: gli edifici sono alti e imponenti e quasi soffocano il cielo, mentre il sole sembra solo una misera lampada al neon di un vicolo qualsiasi e che a malapena si scorge fra i grattacieli.
Il volto migliore di questa megalopoli risorta dalle sue ceneri è uno spettacolo di alta tecnologia: prospera e piena di potenziale, simbolicamente pronta ad accogliere le Olimpiadi. Dietro i monti invalicabili di ferro e cavi si trova ancora la vecchia Tokyo, a cui il tempo ha restituito uno squallore desolante che lo sfarzo tecnologico non ha fatto altro che accentuare. La calca di persone che opprime le strade potrebbe essere una discarica di vecchi attrezzi, ugualmente spenti, ugualmente arrugginiti e tremendamente soli. I giovani, ma non solo, si devono fare strada tra le rovine di un mondo che non li accoglie e non li perdona: per loro non c’è né un passato in cui riconoscersi, né un futuro in cui sperare.
Anche Ghost in the Shell (1995) di Mamoru Oshii ci accoglie in uno scenario simile. Ci troviamo a New Port City, il cui skyline in realtà ci ricorda più Hong Kong che Tokyo. Il dualismo fra città vecchia e città nuova è ancora più evidente in questo caso: i quartieri più recenti si trovano su un’isola artificiale, collegati alla parte più vecchia da lunghi ponti. Da un lato, la vita si muove fra costruzioni enormi, vertiginose, sterili, gusci in cui è difficile credere si trovi un qualsiasi organismo vivente; dall’altro, l’aria è ugualmente claustrofobica, le strade sono fatiscenti e a essere randagi sono sia animali che umani.
Neo Tokyo e New Port City si somigliano in questo senso, proprio perché condividono un sentimento comune, ma le storie che raccontano si pongono e si sviluppano su poli opposti dello stesso spettro. La trasfigurazione dello spazio urbano e del corpo umano sono echi che si rispondono, o forse una conseguenza reciproca che si ripete e si radicalizza l’una nell’immagine dell’altra.
In Akira, sono esperimenti scientifici troppo arditi a causare potenzialmente la fine dell’umanità, prima a causa della Terza Guerra Mondiale, ma anche in seguito, anni dopo. La vita di Kaneda e del suo gruppo di motociclisti viene scossa dopo lo scontro con un misterioso bambino dai poteri psichici. L’incidente scatena una serie di eventi drammatici: Tetsuo, uno dei membri del gruppo, viene rapito da un’agenzia governativa e sottoposto a esperimenti che risvegliano in lui poteri psichici immensi e incontrollabili. Nel frattempo, altri bambini con abilità speciali emergono, profetizzando il ritorno di Akira, un essere dotato di poteri sovrumani che anni prima scatenò la Terza Guerra Mondiale e la distruzione di Tokyo. Tetsuo, ossessionato dal potere e legato ad Akira da un oscuro destino, fugge dal laboratorio e scatena il caos in città. Quando Kaneda riesce finalmente a ritrovare l’amico, capisce che Tetsuo è ormai troppo pericoloso e che l’unico modo per salvarlo è fermarlo con la forza.
I poteri di Tetsuo crescono a dismisura, facendo crollare Neo Tokyo su sé stessa e attirando l’attenzione di fanatici religiosi che lo venerano ciecamente, come un dio, nonostante la morte e la distruzione che lascia dietro di sé. In un climax drammatico, Tetsuo raggiunge il luogo dove sono custoditi i resti di Akira, ma la sua sete di potere lo porta a una trasformazione mostruosa, diventando un bambino gigante e informe che minaccia di annientare Neo Tokyo. Per fermarlo, i tre bambini psichici evocano Akira, che si manifesta come una luce accecante che ingloba Tetsuo, Kaneda e i bambini in un nuovo universo, dando vita a un nuovo Big Bang. Il film si chiude con la voce di Tetsuo che proclama la sua esistenza in questo nuovo mondo.
In queste scene, il body-horror diventa uno strumento fondamentale per mostrare allo spettatore la completa perdita di umanità di Tetsuo, che da interamente umano passa a essere un ibrido cyborg, fino ad un totale annientamento del suo ego – una potente metafora della potenzialmente distruttiva invasione della tecnologia nel corpo umano. Il suo corpo assorbe la tecnologia che lo circonda, trasfigurandosi e deformando al suo passaggio anche la città vecchia – ma soprattutto quella nuova, così imponente eppure così fragile. La figura di Tetsuo è quasi paragonabile a una divinità cibernetica implacabile, mentre gli uomini sotto di lui sono solo carne, le macchine solo ferro (De La Iglesia & Schmeink, 2020).
Ghost in the Shell, invece, si concentra sul potenziale sviluppo della tecnologia cyborg e dell’intelligenza artificiale, giocando anche sulla percezione euro-nordamericana del Giappone come realtà iper-avanzata e precursore tecnologico. L’adattamento di Mamoru Oshii del manga di Masamune Shirow segue le vicende della Maggiore Kusanagi Motoko, è un cyborg quasi completamente artificiale, eccezion fatta per una parte del suo cervello, che lavora per l’agenzia governativa “Sezione 9”, specializzata nella cyber-criminalità.
I componenti della Sezione 9 e gli abitanti di New Port City sono “potenziati” grazie a delle menti cibernetiche che permettono comunicazioni telepatiche, oltre alla possibilità di accedere a determinate informazioni tramite archivi online, in un modo che ricorda il nostro concetto di rete internet. La storia ruota attorno alla caccia al “Signore dei Pupazzi”, un hacker in grado di controllare le persone come marionette, manipolando le loro memorie e le loro funzioni mentali e che si rivela essere un’intelligenza artificiale sofisticata creata dalla Sezione 6 per un complotto politico.
Interrogato dagli agenti, il Signore dei Pupazzi rivela di aver sviluppato uno “spirito” simile all’anima umana e quando Kusanagi lo cattura, rivela di volersi fondere con quello della Maggiore per creare una creatura superiore: metà umana e metà artificiale.
Kusanagi inizia a interrogarsi sulla propria identità, su cosa rimarrebbe di lei e della sua umanità a seguito della fusione con il Signore dei Pupazzi, e la scena finale del film sembra farci intuire che i due spiriti si sono, infine, fusi. Vediamo Kusanagi con un nuovo corpo di bambina a seguito della quasi completa distruzione del suo precedente – un riferimento forse alla (ri)nascita, alla creazione di una nuova vita dopo la fusione di due. Mentre si chiede cosa le riserva il futuro, il suo sguardo è rivolto alla fortezza articolata di grattacieli, artificiali ma pullulanti di vita, che forse condividono con lei molto più di quanto ci si aspetti.
Il corpo e lo spazio urbano, laddove in Akira erano uno la conseguente distruzione dell’altro, in Ghost in the Shell si fondono, dialogano, si rispondono. Entrambi artificiali, pullulanti di una vita a cui non si riesce a ricondurre una vera identità e di cui è impossibile stabilire l’autenticità. Ghost in the Shell si interroga su cosa renda l’umano tale, su cosa delinei la propria identità, se il proprio corpo non sia che un guscio facilmente sostituibile e se lo spirito – l’anima – si generi dalla sola memoria, organica o meno che sia. Entrambe le opere, capisaldi del genere cyberpunk, mettono al centro la questione dell’identità: propria, dell’uomo, della realtà, mentre il corpo fisico diventa superfluo, sostituibile, deformabile.
Akira si rifà maggiormente alla radice “punk”, vira verso l’anarchia: Kaneda e il suo gruppo di motociclisti sono un moderno gruppo bōsōzoku, una sottocultura giovanile giapponese degli anni Ottanta: rumorosi, violenti e ribelli. Kaneda e Tetsuo sono orfani in un sistema che li ha dimenticati e la tecnologia li ha deumanizzati, rendendoli scarti, allora loro si sono dovuti arrangiare come potevano, in modo animalesco e profondamente umano. Neo Tokyo non è altro che una delusione, una promessa non mantenuta che si rende evidente nelle strade rovinate, i negozi chiusi, nella scuola scadente, i bar sotterranei, le corse illegali, che si contrappongono allo sfarzo luminoso e fittizio delle luci a neon. La stessa perdita di controllo di Tetsuo sul suo corpo semi-meccanico sembra un avvertimento al Giappone, alla corsa capitalistica, caotica e frenetica, che sembra annunciare solo un’apocalisse.
Ghost in the Shell si sposta su un piano filosofico ed esistenzialista che troviamo in altre opere del genere fantascientifico, come Io, Robot di Asimov. Questo dipinge una società post-umana, dove i cyborg non sono una sostituzione all’essere umano, ma un modo per indagare meglio sé stessi e i limiti della propria soggettività. Il corpo di Kusanagi è, quindi, una scatola di metallo: superficialmente sessualizzata, mai definita nel proprio genere, funzionale e affidabile. Il suo solo scopo è quello di uccidere persone e la sua natura di cyborg la rende perfettamente precisa.
Verso la fine del film, infatti, sacrifica il suo corpo per garantire il successo della sua missione e il suo corpo “nuovo” la mantiene identica a sé stessa e allo stesso tempo la cambia. Quello che la rende sé stessa è la sua consapevolezza di sé, riconoscendosi entro certi limiti. Tuttavia, nemmeno lo spirito garantisce la soggettività, questo lo dimostra il Signore dei Pupazzi, che riesce a impiantare ricordi e memorie fittizie nelle menti umane. Questo fa mettere in dubbio a Kusanagi la sua stessa esperienza, chiedendosi su quale base lei può credere nella propria identità. La fusione con l’altro spirito segna allora una riproduzione oltre-umana, che non è una semplice copia, ma una versione nuova, che richiede alle due originali di cessare di esistere. In ultima analisi, entrambi i film contribuiscono al tema cyberpunk della relazione fra umano e macchina, ma con esiti opposti.
La visione di Akira, erede della cultura punk e anarchica, è decisa a rigettare la tecnologia, vista come corrosiva e distruttiva. Ghost in the Shell, dall’altro lato, ci offre la possibilità di un’esistenza ibrida, dove l’unione di spirito e tecnologia è feconda e necessaria per creare le condizioni stesse della vita. I due film hanno svolto anche il ruolo di presentare il Giappone all’Europa e al Nord America, sulla scia narrativa del tecno-orientalismo, a partire da Blade Runner (1982) di Ridley Scott, che descrive l’Asia Orientale come una società così tecnologicamente avanzata da aver perso il proprio senso di umanità.
Uno specchio che riflette luci ed ombre dello sviluppo post-atomica, sul solco di una ferita non ancora chiusa e vitale per sopravvivere ad un mondo lanciato in una corsa cieca verso la ricostruzione, in ogni sua parte, della propria identità, ma anche inquieto e diffidente.
BIBLIOGRAFIA
Brown, Steven T., Tokyo Cyberpunk: Posthumanism in Japanese visual culture, Palmgrave Macmillan, 2010
Bolton, Christopher, Csicsery-Ronay, Istvan Jr., Tatsumi, Takayuki,
Robot, Ghosts and Wired Dreams: Japanese science fiction from origins to anime, University of Minnesota Press, 2007
De la Iglesia, Martin & Schmeink, Lars, Akira and Ghost in the Shell (Case Study), Chapter 20 of The Routledge Companion to Cyberpunk Culture, Routledge, 2020, pp. 162–168
Johnson, Luke, Japan-ness and Dystopia: Why Does Cyberpunk Love Tokyo?, per Asian Art and Architecture, 17 dicembre 2023