Il Grande Libro degli Yōkai: cronistoria del fantastico giapponese

Il Grande Libro degli Yōkai: cronistoria del fantastico giapponese

di Roberta Cavallo

È notte, una di quelle che sembrano infinite. Il buio è impenetrabile, la fioca luce delle candele non è sufficiente per dissipare la sua trama fitta e le piccole fiammelle danzano al suono di una melodia lontana, che sembra nascere dal cuore della foresta. Le donne, i bambini e i vecchi si sono rifugiati nelle proprie case, al sicuro: nemmeno i più impavidi sarebbero così sciocchi da rimanere fuori quando il mondo sembra farsi di inchiostro denso e nero, né i soldati sono così tracotanti da credere che le loro armi affilate siano sufficienti contro ciò che li attende al di là delle mura che li proteggono. Quando sembra che la notte non possa farsi più tetra, si sente un tuono, forse un suono di tamburi. Ecco che all’improvviso si vede una volpe, un occhio attento noterebbe una smorfia quasi umana sul suo viso, poi un gatto dallo sguardo indecifrabile e a seguire, sempre più numerosi, strani spiriti e creature che infestano le strade. 

Mukashi, mukashi: sono arrivati gli yōkai.

Con voce sussurrata Irene Canino ci porta all’interno di una dimensione antica e impalpabile, fatta di spiriti e creature mutaforma, benevole e malefiche, vendicative, crudeli, magnanime attraverso il suo Il Grande Libro degli Yōkai, edito da Mondadori nel 2023, un volume fondamentale per avvicinarsi ad un mondo altrimenti immenso e lontano. 

Paura e speranza, fin da quando l’uomo ha avuto coscienza del mondo che lo circondava, sono stati i motori che hanno generato la narrazione della realtà: paura di ciò che non si capiva e speranza, dandogli un nome, di controllarlo o almeno, di riuscire a proteggersi da esso. È proprio da questi sentimenti che si sono generati i racconti che hanno dato vita all’immaginario degli yōkai. Allora, tra le pieghe della storia, l’inspiegabile ha preso forma e si è fatto linguaggio, si è fatto immagine, fino a sovrascrivere il quotidiano.

La stessa radice della parola yōkai ce lo dice, composta dai kanji 妖怪: il primo () si può tradurre con “maleficio, fattura”, il secondo (kai) come “mistero” o “manifestazione inquietante”. Quindi, sotto il termine ombrello ricadeva tutto ciò che si manifestava in maniera oscura, misteriosa e inesplicabile e per questo, fonte di angoscia. Il termine poi sì è ampliato, indicando anche ciò che li produce e con il passare dei secoli, si definiscono sempre di più, con caratteristiche fisiche e caratteriali sempre più precise. Nella seconda parte del volume l’autrice ci presenta una “tassonomia spettrale” degli yōkai, indicando dove essi si manifestano, dai luoghi più incontaminati alle città e sobborghi, con le diverse caratteristiche e le diverse fonti in cui essi si trovano rappresentati. Vengono riportati anche racconti, festività e rituali in cui si ritrovano, il loro impatto nella cultura letteraria e teatrale prima e mediatica poi.

L’autrice ci offre una descrizione essenziale del sostrato spirituale che ha generato non solo la cultura degli yōkai, ma i rituali religiosi e il folklore giapponese per intero. 

Lo Shintō, composto dai caratteri 神道, shin 神 indica “spirito” e “sentiero”, è una religione politeista e animista, che sacralizza l’universo per intero. Essa presuppone l’esistenza dei kami (神), che indicano le forze spirituali che permeano ogni soggetto vivente e non vivente. Il divino non trascende l’uomo, ma pervade la sua esistenza e quella della natura per intero. I kami sono talmente numerosi e differenti tra di loro che in giapponese esiste l’espressione yaoyorozu no kami (八百万の神), ovvero “otto milioni di kami”. Questo detto giustifica non solo i kami, ma anche per tipi molto differenti di yōkai, confluiti anche delle altre culture e religioni degli altri paesi dell’Asia come Cina e Corea.

Quando, in epoca Meiji, una certa forma di modernità è entrata a far parte del quotidiano giapponese, il rapporto con le divinità e le creature soprannaturali ha cominciato a cambiare forma: la notte non era più una belva misteriosa e imprevedibile, bensì diventava un gatto di casa, quieto e obbediente con i piccoli soli elettrici che ne svelano i segreti. Quando viene meno il timore, anche le creature generate da esso cominciano ad impallidire. In questo periodo la cultura degli yōkai tocca i minimi storici e si sente la necessità di colmare tutte le distanze tecnologiche e scientifiche che separavano il Giappone dagli altri paesi. 

In questi anni Inoue Enryō – filosofo, sacerdote buddista ed educatore – conduce delle ricerche sugli yōkai, con approccio razionale e scientifico, per dimostrarne l’inesistenza. Battezza il suo campo di indagine con il nome yōkai gaku (妖怪学) e in contemporanea Lafcadio Hearn – scrittore e iamatologo di origini irlandesi naturalizzato giapponese – raccoglie quante più storie e miti possibili dalla moglie e dai conoscenti, che avrebbero poi svelato il folklore giapponese al resto del mondo. Quando sembrava che gli yōkai avessero ormai compiuto il loro tempo, come vecchi cimeli del passato conservati con nostalgica cura, essi hanno cominciato a ripopolare la fantasia del popolo giapponese, accompagnandolo nella propria rinascita dopo la Seconda guerra mondiale. 

Le paure dell’uomo cambiano forma: la devastazione lasciata dai bombardamenti atomici traccia una cicatrice indelebile e la sensazione terrificante di essere dinanzi qualcosa di inspiegabile e incontrollabile. Ne è simbolo il mostro Gojira o Godzilla come è stato ribattezzato in Occidente: un mostro enorme, simile ad un dinosauro, risvegliato e deformato dai test nucleari e dalle radiazioni, capace di lanciare raggi radioattivi che fa il suo debutto nel 1954 in un film diretto da Honda Ishirō. Kaijū (怪獣, strane bestie) è il termine che indica le creature dell’era atomica per il grande e piccolo schermo di cui Godzilla è il capostipite e che apre le porte al kaijū eiga (怪獣映画), dove le creature mostruose sono generate sempre da un uso improprio dell’energia atomica e riflettono la paura di vivere in una modernità imprevedibile e in continuo mutamento.

Negli ultimi anni, l’interesse verso la cultura degli yōkai ha trovato un rinnovato vigore, accompagnando il Giappone nella sua ripresa economica attraverso nuovi modi di rappresentazione, come videogiochi, anime e manga. Gli stessi Pókemon non sono altro che una rielaborazione dei mostri del passato, ma in una chiave più kawaii (carino) e meno kowaii (spaventoso). Il termine, derivato dalle parole inglesi pocket monster e poi traslitterato in Poketto Monsutā (ポケットモンスター, “mostri tascabili”) evoca da un lato la natura straordinaria delle creature, ma allo stesso tempo anche una natura addomesticabile e familiare all’uomo, in una sorta di scesa a patti con l’extra-ordinario. 

Irene Canino, con una prosa semplice, ma mai superficiale, ci conduce nel cuore di una cultura allo stesso tempo lontana e vicina alla nostra, con la leggerezza e il fascino di un racconto narrato a tarda notte e con la cura di non lasciare alcun dettaglio fuori posto.