Cinema e distopia nel Giappone contemporaneo

Cinema e distopia nel Giappone contemporaneo

Da sempre il cinema è una delle espressioni artistiche che permette di mostrare al meglio le paure, le ansie e, in generale, i sentimenti delle persone, proprio per la sua caratteristica intrinseca di dare spazio alle immagini, che facilmente si imprimono nella mente. Per questo il tema della distopia ben si presta ad essere interpretato in quest’ambito: essa immagina futuri caratterizzati da sviluppi politico-sociali e tecnologici negativi, che tuttavia si basano su quella che è la realtà di chi scrive, estremizzandone i problemi al fine di criticarla. Le tematiche toccate da questo genere cinematografico, infatti, cambiano in base alle sfide che la società nella quale l’autore vive sta affrontando in una determinata epoca storica. Il Giappone, ovviamente, non è escluso da questo tipo di narrativa né tanto meno dalla sua recente popolarizzazione, e in questo articolo vedremo più da vicino tre lungometraggi di epoche e stili differenti che declinano la distopia in modi peculiari.

 

Se si parla di distopia, non si può non iniziare parlando di Akira. Inizialmente pubblicato come manga dal 1982 al 1990, nel 1988 è diventato un film diretto dallo stesso mangaka Ōtomo Katsuhiro, riprendendone le tematiche principali in un arco narrativo compresso e dal finale modificato. Al di là della trama e delle critiche sollevate riguardo le discrepanze con il manga, l’opera è considerata un esempio dell’allora emergente corrente del cyberpunk, sottogenere che mette in allarme sul pericolo che comporterebbe uno sviluppo senza limiti della tecnologia e il controllo totale dell’individuo ad opera di una società oppressiva. Le storie tipiche del cyberpunk sono ambientate in un mondo futuro, in decadenza, ma allo stesso tempo ipertecnologico, e si focalizzano sulle azioni dei protagonisti, che si ribellano all’ordine corrente. 

Akira è anche ascrivibile al sottogenere della fantascienza post-apocalittica, perché è ambientato nel 2019 a Neo Tokyo, città nata dalle ceneri della vecchia capitale, rasa al suolo da un’esplosione che ha causato la Terza Guerra Mondiale – un espediente che permette all’autore di far riflettere gli spettatori su temi che sono importanti per la società contemporanea senza citarli esplicitamente. Sarà Ōtomo stesso a commentare: 

Volevo rievocare un Giappone come quello in cui ero cresciuto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, con un governo in difficoltà, un mondo in ricostruzione, pressioni politiche esterne, un futuro incerto e una banda di ragazzini abbandonati a se stessi, i quali combattono la noia correndo in moto.                                                                                  (Paul Gravett, ‘Katsuhiro Ōtomo: Post-Apocalypse Now’, in Comic Heroes Magazine, n. 19, Future Publishing, giugno 2013) 

Akira è un film che affronta diverse tematiche, richiamate in modo più o meno esplicito, come: l’angoscia verso le mutazioni genetiche e le sperimentazioni scientifiche su cavie umane, la denuncia verso l’isolamento sociale, la corruzione e le sofferenze giovanili. Troviamo anche l’ansia per il dilagare della violenza fisica e verbale e un generale orrore per i conflitti bellici. Queste riflessioni sono mescolate a incredibili scene d’azione, visionarie allucinazioni, uno stile grafico che si basa su spazi claustrofobici e un character design improntato sul realismo dei volti, in grado di esprimere al meglio le emozioni e il bisogno di riscatto di personalità relegate ai margini. È proprio questo stile particolare a mettere in risalto la contrapposizione fra la banda di motociclisti e delle loro amiche, giovani ribelli ma pieni di vita e di voglia di riscatto, e il mondo degli adulti, fonte di distruzione, corruzione e decadenza. 

In particolare, gli adulti cercano di usare e manipolare i bambini detti “esper” – dotati cioè di poteri paranormali – per sfruttarne i poteri psichici, in grado di uccidere. Gli esper sono rappresentati come bambini dall’aspetto invecchiato, bambini che non hanno vissuto la loro adolescenza, momento chiave per la crescita e la maturazione personale nonché altro tema di riflessione chiave dell’opera. 

Ma la vera domanda che Ōtomo Katsuhiro sembra porsi è: come comportarsi di fronte a un mondo sprofondato nel caos e nella deriva morale, caratterizzato da una forte indifferenza verso gli altri? La risposta si trova nella dicotomia rappresentata dai due protagonisti, Tetsuo e Kaneda, amici di infanzia, orfani e abbandonati, che si pongono nei confronti della società in modi opposti. Da un lato, Tetsuo incarna la possibilità di essere qualsiasi cosa: elimina ogni forma di controllo e soggiogazione e, grazie al suo potere illimitato, pretende vendetta attraverso la distruzione totale. Dall’altro c’è Kaneda, forte e invincibile, che gli si oppone per salvare il mondo e ricostruirlo sulla base di ideali come l’amore e la fratellanza. 

Tuttavia, in realtà, al di sopra dei due amici e del resto degli umani c’è una terza entità: Akira, personaggio che riecheggia spesso nella storia, ma che non appare mai, se non nel finale. Si tratta di un espediente tipico della fantascienza, il deus ex machina, che, con un’esplosione finale, causa distruzione e devastazione, ma costituisce anche lo stratagemma narrativo che permette la rinascita del genere umano. Ed è proprio nella scena finale, che richiama subito alla mente le immagini dell’esplosione delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che emerge un altro tema importante, quello dell’angoscia verso l’energia nucleare. Riprendendo le parole dell’autore stesso, Akira rievoca il secondo dopoguerra, e riflette sui lati oscuri della società giapponese del periodo, su come la ricchezza data dalla ricostruzione abbia portato alla corruzione, sull’alienazione dei giovani e su come un grande sviluppo tecnologico generi paure e angosce per il futuro.

 

 

Un altro film distopico che merita un approfondimento a livello tematico è senza dubbio Battle royale (2000), diretto da Fukasaku Kinji e il cui soggetto è tratto dall’omonimo romanzo di Takami Kōshun (1999). È interessante sottolineare come il regista stesso abbia deciso di dirigere un film tratto dal libro perché ispirato dal ricordo di quando lui e i suoi compagni di classe, a soli 15 anni e durante la Seconda Guerra Mondiale, lavoravano come operai in una fabbrica di munizioni che venne bombardata, e i sopravvissuti dovettero disporre i cadaveri dei propri compagni (Fukusaku Kinji, ‘Director’s statement’ in www.battleroyalethemovie.com, 5 dicembre 2002). Questa esperienza ha fatto capire al regista quanto il governo giapponese fosse responsabile del conflitto, contribuendo allo sviluppo di un odio verso la generazione degli adulti, rimasto vivo a lungo. 

Il sottogenere di Battle Royale è quello del survival game, caratterizzato da personaggi in continua lotta per la sopravvivenza attraverso sfide mortali. Un genere in grado di catturare l’attenzione del grande pubblico, ma che cela al suo interno tematiche complesse, legate all’etica e alle paure sociali, e che spesso si contraddistingue per la gratuità con cui i protagonisti devono affrontare giochi e sfide all’ultimo sangue, spesso senza (quasi) motivo.

In Battle Royale, l’autore ha intessuto nella trama una introspezione psicologica e filosofica, elemento innovativo per il genere. L’ambientazione dell’opera imita in qualche modo quella che è la nostra vita reale, ma andando avanti ci ritroviamo invece in una società che non solo considera i giovani come sbandati, senza voglia di fare e con i quali è impossibile ristabilire un dialogo, ma che porta all’estremo questo pensiero: ecco, quindi, che il governo decide di istituire il “Battle Royale” come progetto educativo, basato su competitività e violenza, dove la sopravvivenza è possibile solo a scapito di emozioni e sentimenti. 

Sicuramente il film ha un grande impatto visivo, grazie anche alla colonna sonora e alle immagini forti: infatti, è ritenuto uno dei film più pericolosi mai girati, tanto da essere stato fonte di ispirazione per Kill Bill di Quentin Tarantino (Quentin Tarantino, ‘Quentin Tarantino on His Son Loving Zombies, Once Upon a Time in Hollywood & Video Archives Podcast’ in Jimmy Kimmel Live, luglio 2022). Ma un altro elemento importante è anche l’accurata caratterizzazione di tutti i numerosi personaggi, che permette lo sviluppo di diverse sottotrame nel corso dei vari “giochi” che toccano i temi dell’amore, del coraggio, della vendetta, ma anche della ricerca di valori perduti, e offrono inoltre una riflessione sul sistema educativo. 

Infine, un ultimo tema importante è quello della critica alla società giapponese dopo lo scoppio della bolla economica negli anni Novanta, e in particolare al mondo degli adulti: è a causa della crisi che i giovani crescono con ansie, paure e incertezze, ma anche con valori nuovi, creando una spaccatura tra loro e le generazioni precedenti, dalle quali non si sentono compresi.

 

 

Un ultimo film che mostra un terzo modo per declinare la distopia, questa volta discostandosi dalla sua definizione generale e più fantascientifica, è senza dubbio Big Bang Love, Juvenile A (2006). Il titolo originale è 46-okunen no koi (lett., L’amore di 4.600 milioni di anni), diretto da Miike Takashi e tratto dal romanzo Shōnen A erejii (lett., L’elegia del giovane A) di Masaki Ato, pseudonimo dei fratelli Kajiwara Ikki e Maki Hisao. 

La vicenda ha inizio quando il giovane e introverso Ariyoshi Jun uccide un cliente del locale gay dove lavora: infatti, non mostra alcun segno di pentimento e l’omocidio è brutale, quindi viene arrestato. Quando entro nel penitenziario conosce Kazuki Shiro, ragazzo dal fascino magnetico ma con un’indole violenta, da cui è subito attratto. I due, pur essendo agli opposti, sono gli unici in grado di comprendersi, così diventano amici sempre più stretti. Tutto termina quando Shiro viene ritrovato morto e la polizia vede in Jun il responsabile perché, in preda ad allucinazioni, ha ammesso la sua colpevolezza. In realtà, come si scoprirà alla fine, Jun è innocente e voleva sinceramente bene a Shiro, che, travolto dal peso opprimente del suo passato, si è suicidato. 

 Il film è complesso e ricco di spunti di riflessione. I protagonisti sono dei reietti, rifiutati ed emarginati dalla società, senza radici e di bassa estrazione sociale, e presente in tutta l’opera è il tema della pazzia, che viene richiamata sia a livello verbale (spesso è il protagonista stesso a dichiararsi “pazzo”), sia a livello visuale attraverso l’alternanza di scene molto violente e disturbanti a visioni, allucinazioni e sequenze di animazione. 

Nella storia si privilegia l’indagine psicologica: svaniscono i confini tra realtà, ricordo e allucinazioni, i quali si intrecciano su vari livelli. Basta pensare alla narrazione asimmetrica che avvicenda flashback e reiterazioni sceniche, l’alternanza di primi piani ad altre inquadrature geometriche, vari accostamenti cromatici, l’uso di animazione e CGI, tutte tecniche che contribuiscono a creare numerosi simbolismi e atmosfere oniriche. Il cuore della narrazione non è la verità, ma le deviazioni in cui ci si può imbattere mentre si è impegnati nella sua ricerca. È sempre per questo fine che i personaggi sono connotati da azioni ripetitive e spesso all’improvviso violente, molto meno dalle parole. 

Senza dubbio, in questo film si ritrovano temi cari al regista, come il passaggio dall’infanzia all’età adulta e la conseguente perdita dell’innocenza, i rapporti tra uomini, la ricerca della felicità e la rappresentazione di chi è vittima di discriminazione sociale. Jun, il protagonista, sembra in apparenza fragile e incapace di provare sentimenti o emozioni, ma in realtà cela dentro di sé un grande bisogno di protezione e affetto. Al contrario, l’altro protagonista maschile, Shiro, sa comunicare con il mondo attorno a sé solo attraverso la forza e l’aggressività. Tra i due, opposti ma complementari, si instaura un rapporto che la critica (Ben Sachs, ‘A Decade with Takashi Miike. A Nap of Kings: Big Bang Love, Juvenile A’ in Mubi, giugno 2010) ha definito come quello tra fratello maggiore e minore: Shiro ha già conosciuto la violenza del mondo, quindi vuole proteggere Jun, che prova ammirazione per lui ed è preda della confusione. 

Caratteristico è anche il forte senso di claustrofobia dato dall’ambientazione del carcere, di cui non si riescono a capire bene la struttura e la collocazione, risultando un luogo sospeso nel tempo e nello spazio. Il film non è certo di facile fruibilità, soprattutto grazie al simbolismo, ai salti temporali, ai significati nascosti e ai diversi linguaggi filmici utilizzati, ma, in fondo, tratta di temi contemporanei e apre a un interrogativo lasciato senza risposta: è possibile perdonare le azioni di persone come Shiro, diventato violento non a causa di una cattiveria primigenia ma per fattori legati all’ambiente in cui è cresciuto?

 

 

Il tema della distopia è stato quindi declinato in modo diverso, legandosi anche a vari sottogeneri della fantascienza, in diverse produzioni cinematografiche giapponesi nel corso del tempo, ma l’elemento che unisce tutti questi film è un’aspra critica sociale. La società, le istituzioni governative e il mondo degli adulti in generale hanno costruito un mondo basato su potere e ricchezza materiale, ma che nasconde molte crepe e ombre. I giovani, proprio perché nella fase critica della crescita e attenti ai cambiamenti, sono più sensibili a questi elementi e vogliono costruire un mondo migliore. Per questo, spesso si sentono confusi e combattono contro il sistema, oppure ne sono sommersi e quindi diventano violenti, ma rappresentano il vero specchio della realtà in cui viviamo e l’unica speranza di cambiare davvero le cose: ecco perché sono proprio i giovani ad essere i protagonisti e gli eroi di questi film distopici.